lunedì 16 luglio 2012

Ein Jahr ist vorbei...parte seconda

Prosegue da qui la mia profonda e minuziosa analisi del mio primo anno in terra tedesca: la Germania vista da me dalla A alla Z, ovvero come vivere spaesati ed essere felici!

H come HIMMEL - Bello come il ciel di Lombardia quando è bello? No! Bello come il ciel di Turingia quando è bello! Dove il "quando è bello" è fondamentale, data l'esiguità di giornate serene a disposizione. Ma quando il sole finalmente arriva, non mi è mai capitato di vedere un'immensità così azzurro intenso, pulita e luminosa sopra la mia testa. E la sera, le nuvole si tingono di colori che da noi non esistono: rosso cupo, viola, blu, nero. Inutile dire che, in una piccola città immersa nella natura come Nordhausen, il cielo notturno è un'esperienza davvero imperdibile (quando è sereno, ovviamente): le poche luci artificiali permettono di godersi una volta celeste immensa punteggiata di stelle che sembrano lampioni tanto sono grosse e brillanti. E con un po' di nostalgia penso a quanto sarebbe bello godersi lo stesso cielo sdraiati nel tepore di una spiaggia italiana...  
I come ITALIA! - Inutile dire di no, i nostri "cugini" tedeschi hanno sviluppato per noi un imprescindibile sentimento di amore-repulsione che, volenti o nolenti, ci costringe a stare vicinivicini. Dicono di amare il nostro clima, la nostra cultura, il nostro mare, il nostro sole, il nostro cibo. Ma poi si lamentano del traffico, dello smog, dei ladri, del costo della vita. Come se noi non ce ne fossimo mai accorti, liebe Freunde! Non è che potete pretendere la perfezione, siamo italiani dopotutto. E allora si creano la loro piccola illusione d'italianità nel pieno rispetto della perfetta tedeschità, aprendo Restaurante Vero Italia Pizza Sprint un po' ovunque e spacciando Pene Arabiato come verace piatto italico. Ma comunque lo so, liebe Freunde, che in realtà continuate a sbirciarci con un po' d'invidia, cercando di capire come possiamo, noi bifolchi italioti, rovinare un Paese così bello. 
Quando lo scopriamo anche noi ve lo diciamo, comunque.  
J come JAWOHL - Ovvero l'arte di dire sempre di sì anche quando non capisci una mazza. 
Che è più o meno quello che mi capita ogni volta che entro in qualche ufficio o devo sbrigare qualunque cosa che non sia comprare un chilo di pomodori o suonare il pianoforte. Bisogna guardare con somma concentrazione l'interlocutore, aggrottando la fronte per fargli capire che sì, stiamo ascoltando e traducendo minuziosamente ogni singola sputacchiante sillaba del suo discorso (ricordate lo sguardo falsamente concentrato rivolto alla prof di matematica mentre vi rispiega per l'ottava volta il teorema delle funzioni implicite, sperando che noti la vostra totale abnegazione e comprensione della materia in modo che non vi faccia domande dopo?); interloquire di tanto in tanto con Jaa, Natürlich, Ach so, Stimmt. Annuire con espressione grave e pensosa. E pregare che lì dentro non ci fossero dei punti di domanda.
Kartoffelpuffer mit Apfelmus
K come KARTOFFELN - Il piatto nazionale della Germania. Qui i tedeschi esprimono al massimo potenziale tutta la loro fantasia culinaria. Rösti, insalata di patate, patate e cipolle, patate e cetrioli, patate e patate, Frittes, Kartoffelnudeln (pasta di patate, tipo gnocconi), Klöße (che sono dei pallozzi fatti di patate crude grattugiate), arrivando ad aberranti accostamenti che possono includere marmellate - dalla salsa di rabarbaro alla composta di mirtilli. Una cara amica mi invitò un giorno a casa sua a mangiare i Kartoffelpuffer, una parola dal suono puffoso che mi ha incuriosito. Non sono altro che frittelle di patate...che lei mi ha disgraziatamente servito con abbondante mousse di mela! E mentre cercavo di trangugiarle mi è apparso il santo protettore dei pizzaioli che scuoteva la testa, amareggiato. 
L come LINGUA - Scheiße! Non è un caso che questa sia la prima parola che mediamente ogni italiano impara non appena approda nel magico mondo della lingua tedesca: una bella parolaccia è quanto di più espressivo il malcapitato riesca ad esalare, dopo che la lingua gli si è attorcigliata in qualche groviglio di consonanti o quando si rende conto che l'acca, sì, maledizione, va pronunciata. Eichhörnchen, stupido essere peloso. Tanto per dirne una.
M come MODA - Argomento che mi sta a cuore per le grandi soddisfazioni che la sciatteria tedesca mi regala, facendomi sentire elegante e alla moda (leggere qui per approfondimenti). Tuttavia urge un rientro a Milano con impellente bisogno di shopping. Crisi dei saldi? Arrivo io!!

[...continua...]

Ein Jahr ist vorbei...parte prima

Quasi un anno è volato da quando ho deciso di imbarcarmi nella mia avventura tedesca: un po' come tutte le cose entusiasmanti e dense di novità mi è sembrato allo stesso tempo passare rapidissimo e interminabile. "Solo un anno??!!" e "Già un anno!" si fondono in un lasso temporale indefinito e mutevole, che in ogni caso sta per volgere al termine.
Una città nuova mi aspetta dietro l'angolo, una casa nuova, un lavoro nuovo, e una vita completamente nuova finalmente accanto a quel matto che per amore ha deciso di affrontare lo studio del tedesco e lanciarsi in quest'avventura con me!
Tempo di bilanci, ordunque! Un po' come a capodanno, quando blog e giornali fanno a gara per sciorinare il meglio e il peggio dell'anno passato, solo che io lo faccio a luglio...Veh, che originale! 

A come ADRENALINA - I primi giorni in Germania sono stati un vero tuffo nel vuoto: non sapevo cosa aspettarmi, come comportarmi, cosa sarebbe accaduto...La risposta: un bel niente! Certo, all'inizio è tutto diverso e incasinato, ma poi ci si accorge che la vita in fondo non è poi molto diversa da quella di sempre e che i tedeschi non stanno lì a scrutarti come se fossi una creatura aliena. In fondo la Germania è come l'Italia, solo più ordinata, più pulita, più fredda e con più consonanti.
B come BROKKOLI - Un giorno capirò perchè diavolo i tedeschi, che hanno una lingua così complessa e ricca di sfumature, non siano mai stati in grado di coniare alcuni semplici vocaboli preferendo invece importare direttamente un termine straniero. Ma storpiandolo. E così fioccano i Pepperoni (che non sono i peperoni), i Salami (che non è il salame), i Brokkoli (che effettivamente sono i broccoli, ma con 'ste kappa da bimbominkia che mi fanno morire...Bella zio, la vekkia m ha mndt al merk a kmprr i Brokkoli). 
C come CANZONI - Accendete la radio e fate una rapida incursione nel magico mondo del podcast radiofonico germanico: è un'esperienza scioccante ma che fa profondamente rivalutare il livello qualitativo della musica leggera italiana. Avete presente quando si fa zapping disperato e si capita immancabilmente su quei canali incomprensibili dove coppie di vecchietti ballano non si sa bene come e perchè? Ci sono sempre una tizia che canta con voce anonima da balera e un tizio con chitarra/fisarmonica/coretti su una base di zum-pa-pa e sintetizzatore...Eccoli! Sono le star della radio tedesca!
D come DESOLAZIONE - Ovvero, il mondo dopo le 18. Non c'è santo che tenga: i negozi chiudono, la gente esce da lavoro e tutti si barricano in casa fino alla mattina successiva. Non c'è un cane per strada. Effettivamente, non c'è nulla da fare per strada: niente vetrine, niente aperitivo, nienteeeee! 
E come ESTATE - Dove'è??? 14 gradi non sono estate!!
F come FINESTRE - C'è talmente poco sole in Germania che evidentemente far entrare luce in casa propria è una priorità assoluta; effettivamente, dopo una di quelle tetre settimane invernali in cui il grigiume ristagna nell'aria come un sudario, è bellissimo accogliere un raggio di sole in casa la prima mattina di cielo sereno...Non altrettanto bello, almeno per me, è farmi svegliare ogni santo giorno dalla luce che filtra dilaga già alle 5 del mattino facendomi cristonare poco elegantemente. Ma perchè, o amici tedeschi, non mettete delle ca**o di persiane, scuri, tapparelle, quel che volete??!! Non vi disturba la luce dei lampioni la notte? Non vi va di dormire fino alle 10 la domenica? Io ho murato meglio che ho potuto le finestre della mia stanza, ma die Sonne se ne fotte allegramente e viene a baciarmi ogni santissima alba. Guten Morgen!!!
G come GARTEN - Qui in Germania (e in particolare, ho sentito dire, in Turingia) hanno un'abitudine che mi ha incuriosita parecchio fin da subito: gli Schrebergarten. Qui a Nordhausen ce ne sono diversi, dislocati in zone periferiche a fare da "ponte" tra la città e i campi e boschi circostanti. Sono dei mini-giardini uno attaccato all'altro che si affittano, dove la gente va per rilassarsi e godersi le rare belle giornate all'aria aperta, poichè è difficile avere un giardino privato sotto casa. In quel giardino si può farci un orto, le grigliate con gli amici, un'aiuola, ed è permesso metterci un piccolo capanno prefabbricato: alcuni lo usano solo come ripostiglio per i rastrelli, ma nulla vieta di ricavarci un paio di stanzette confortevoli e spedirci il marito quando ti fa girare le balle in casa - questo spiega la presenza di antenne paraboliche, che tra patate e cipolle avrebbero poco senso.




mercoledì 20 giugno 2012

Questioni di Look...



Beh sì, diciamo pure che in Germania si vince facile. Riguardo all’abbigliamento, intendo.

 L’ampiamente diffuso (e ampiamente documentato) stereotipo del tedesco agghindato con un’improbabile accozzaglia di vestiti casuali coronati dall’immancabile sandalo con calzino è un tantino abusato forse, ma testimonia bene il livello di accuratezza con cui le persone, soprattutto dalla mezza età in poi, si vestono. Da parte loro, i tedeschi ci ricompensano con una poco lusinghiera sfilza di luoghi comuni che vanno dall’italiano cialtrone all’italiano chiassoso e caciarone, dal ladro al pizzaiolo, dal gondoliere al fannullone. Ma sul look, signori miei, regniamo incontrastati.

Se sei un italiano in Germania, non c’è straccio che indossi che non venga apprezzato all’unanimità come made in Italy style.

In Italia mi sono sempre considerata una che veste casual, termine talvolta utilizzato con l’accezione di “casuale”: jeans e maglietta e via andare, un abitino giusto per le occasioni. Dopo alcuni mesi qui, ho scoperto che i miei soliti jeans e maglietta erano considerati un casual, appunto, di grande stile: la rivelazione durante uno stupido gioco di domande a cui bisognava rispondere su un foglietto e confrontare la risposta alla fine. “Chi è più attento al look tra i tuoi amici?”…quando è saltato fuori il mio nome all’unanimità pensavo mi prendessero in giro, invece erano lì tutti seri a commentare che sì, era una t-shirt ma azzurra intonata agli orecchini e al trucco, e cascava leggermente scoprendo la spalla (e io che credevo fosse semplicemente larga, tsk!), e i jeans un po’ slavati con le all stars stinte (slavati e stinti, eh, mica vecchi) facevano molto casual chic. 
Ho fatto fatica a restare seria.

Oggi invece piove. E ci sono 15 gradi.

Dannazione, il mio orologio biologico dice che dovrebbe essere estate già da un bel po’, e che se mi metto ancora quei dannati jeans mi si incolleranno direttamente alla pelle. 
Il mio armadio pullula di abitini comprati in un tripudio di ottimismo alla vigilia delle ferie a Capoverde, appesi malinconicamente da allora. 
Ma diluvia. 
Ma voglio la gonna. 
Opto per una gonnellina di jeans abbinata a una maglietta blu e bianca, niente male. 
Bene, e le scarpe??? 
Ne ho di bellissime, altissime, apertissime, inadattissime. Sto per fare  tardi a lavoro, così sbuffo e infilo un paio di stivalacci che avevo relegato nell’angolo delle cose-d'emergenza-se-proprio-diluvia-e-non-puoi-farne-a-meno…L’ultima volta che li ho usati è stato su un campo di gara di canottaggio sul lago di Varese dopo un temporale, e questo la dice lunga sulla considerazione in cui versano. 
A coronare la mise un impermeabile stile ispettore Gadget.

Ma arrivata a lavoro, è stato un tripudio di “Du bist SOOO chic!” e “Mein Gott, du bist eine echte Italienerin” (Come sei chic! e Mioddio, sei una vera donna italiana ) e “Aaah, italienisches Style…”, sorrisi di ammirazione e commenti sulla moda milanese.

Sì, mi piace vincere facile. E camminare per strada sentendomi Bud Spencer sapendo che gli altri mi guardano manco fossi Sofia Loren. E godiamoci ‘sto momento di gloria, và! 

sabato 31 marzo 2012

Vivere all'estero ed essere "buzzurri"

Giovani italiani che sognano un futuro, forse all'estero, forse in Italia. Giovani che magari sin dai primi anni del liceo coltivano un progetto che sperano di realizzare negli anni a venire. Giovani che non vogliono accontentarsi di accettare quello che c'è ma decidono di provare ad affacciarsi oltre le soglie di casa per vedere se c'è uno spazio per il loro sogno.
Dove "casa" a volte significa famiglia. A volte città. A volte Paese.

Da quando mi sono trasferita in Germania (sette mesi oggi), frequento con assiduità forum e blog di persone nella mia stessa condizione di "espatriati" (suona male, non è vero?), giovani e meno giovani, leggendo storie, confrontando problemi, analizzando articoli per capire chi siamo e cosa vogliamo.
Quello che volevo io quando sono partita mi è molto chiaro: lavorare sfruttando le mie capacità e la mia passione nell'ambito in cui mi sono cimentata anima e corpo per anni. Nel Belpaese ho lavorato con passione seguendo mille strade, mille progetti, sfornando proposte e accogliendo qualunque possibilità mi venisse offerta: ma dopo anni ancora non riuscivo a intravedere il momento in cui mi sarei finalmente affrancata dalla dipendenza economica familiare, non potendomi permettere un affitto né riuscendo a garantirmi un posto, se non fisso, accettabilmente stabile.

Avrei potuto accantonare il mio sogno.
In molti lo fanno.
Per necessità o bisogno di concretezza.
Quante volte mi sono sentita dire che con la musica non si mangia, che l'arte non è un lavoro e che "alla tua età avevo già due figli e lavoravo da dieci anni"? Nonostante le persone a me vicine abbiano sempre creduto in me senza farmi mai pesare le magre opportunità lavorative che riuscivo a racimolare, negli ultimi tempi in Italia sono arrivata a sentirmi un'intrusa in casa mia, una parassita senza lavoro che perdeva tempo a studiare libri (come se fosse una colpa) e perdermi dietro alla musica: complici quei geni di incompetenza che, nonostante cambino i governi, continuano ad affannarsi a blaterare cazzate solo perchè occupano una poltrona di potere. Ed ecco le schiere di bamboccioni, e più recentemente, di sfigati senza distinzione secondo questi signori che dovrebbero solo avere l'accortezza di tenere il becco chiuso. Se n'è dibattuto in abbondanza: ma accanto ai fannulloni che non hanno un obiettivo né la voglia di cercarselo preferendo farsi mantenere dal papà, quanti giovani ci sono che studiano e lavorano, e darebbero qualunque cosa pur di spiccare il volo ma non ce la fanno? E chi ha finito di studiare, ma il lavoro non lo trova? Perchè un giovane con sogni e progetti non può provare a seguire la sua strada, anche se questa dovesse risultare più lunga di un coetaneo che accetti qualunque lavoretto senza distinzione? Perchè chi vuole provare a intraprendere una carriera "alternativa" deve essere bollato come un figlio di papà che non ha nulla di meglio da fare?

Ho la fortuna di avere due genitori meravigliosi che fin da quando ero bambina mi hanno sempre spronata ad inseguire e realizzare i miei sogni, e che mi hanno sostenuta e appoggiata anche quando molti altri genitori al loro posto avrebbero smesso di farlo. Per amore, suppongo, e perché anche nella loro vita hanno sempre combattuto per un ideale. E hanno accettato che, con fatica, io combattessi per il mio.
Questo fa di me una bambocciona o una sfigata perchè me ne sono andata di casa solo a ventinove anni? Per la mentalità media della società italiana il mio non è nemmeno un lavoro, ma un passatempo per il quale non ho il diritto di essere retribuita. E se lo sono, devo ritenermi una privilegiata. E chi se ne frega dei quasi vent'anni passati a studiare per realizzare il mio sogno parallelamente agli studi classici e all'università (che ho abbandonato), chi se ne frega se ho fatto dei sacrifici e se qualcuno li ha fatti per me.
Questa gente mi risponderà, come ha sempre fatto, che i veri sacrifici sono alzarsi all'alba e andare a zappare la terra o spaccarsi la schiena in miniera.
Ed è quindi anche per questa mentalità retrograda e ostile che ho colto la palla al balzo quando mi si è aperta la possibilità di andare a lavorare in Germania: dopo alcuni mesi di "colloqui" (noi le chiamiamo "audizioni", ma vorrei rendere l'idea) fatti a mie spese viaggiando avanti e indietro cercando di non scoraggiarmi dopo ogni rifiuto, sono stata assunta.
Non navigo nell'oro, ma mi pago un affitto e mi mantengo più che dignitosamente.
Non rimarrò qui tutta la vita, ho in programma di trovare un posto più prestigioso perché sono consapevole delle mie possibilità: ma intanto mi faccio le ossa, approfondisco la lingua, scopro giorno per giorno un Paese dalle abitudini differenti dalle nostre, lavoro sodo e mi preparo per il futuro.

Perché scrivo tutto ciò? Semplice: sono stanca marcia di leggere i commenti qualunquisti e disfattisti che piovono come locuste ogniqualvolta un giornale, un blog o un forum pubblichino articoli in cui si parla di giovani "vincenti": per lo più, giovani che un bel giorno hanno chiuso il trolley e sono partiti in cerca del loro spazio. L'ultimo episodio risale a un paio di giorni fa, quando un blog del Corriere ha pubblicato una piccola rassegna di "quelli che partono", raccontando brevemente storie e avventure di una decina di quasi-trentenni che hanno trovato lavoro e appagamento oltreconfine. Un'incredibile acrimonia accompagna la quasi totalità dei commenti, anonimi che si limitano a sputare con rabbia la loro frustrazione contro chi ci sta provando, a cambiare la sua vita. Credete che sia stato facile? Credete che sia stato comodo? Lasciare amici, famiglia, talvolta l'amore. Una lingua familiare e rassicurante. Un Paese caldo e accogliente, nonostante tutti i suoi problemi. Eppure per qualcuno siamo solo "buzzurri senza arte né parte che appena arrivati a Berlino vengono rinchiusi nello zoo" (testuale commento), accusati di essere figli di papà che fanno lavori chic e se ne vanno perchè non vogliono sporcarsi le mani in Italia con lavori "veri".
A me questi commenti fanno male, mi provocano una rabbia infinita, ma poi faccio un bel respiro e penso che in fondo è solo uno di quegli idioti che nel mio Paese hanno sempre e solo cercato di farmi vergognare del mio lavoro, dei miei studi e dei miei sacrifici, contrapponendovi un lavoro di sudore e fatica, altro che strimpellare i tasti.
- Cosa fai di lavoro? - La musicista. - Ah, wow...ma ti pagano?

Vorrei chiudere un occhio, ma non ci riesco: perché finché esisterà questa ignoranza io so che non potrò mai lavorare come una persona normale nel mio Paese; perché trovo così stupido, gretto e meschino il fatto che si possa anche solo pensare una contrapposizione tra "chi parte" e "chi resta". Siamo tutti italiani e a modo nostro amiamo la nostra terra. Ma se è stato un altro Paese ad accorgersi delle mie potenzialità e a decidere di aver bisogno di me, peggio per l'Italia: io sono rimasta lì per trent'anni dimostrando in tutti i modi quello che potevo fare. In trenta minuti di "colloquio" in Germania ho firmato un contratto. 






venerdì 23 marzo 2012

Auf Wiedersehen, Tacheles!

E così, il Tacheles chiude definitivamente i battenti: un momento amaro per coloro che hanno sempre considerato questo luogo come un crogiolo un po' anarchico, un po' intellettuale, un po' genialoide ma assolutamente parte integrante di Berlino.

Nella mia breve visita alla città ci sono solo passata davanti, scoccandogli un'occhiata di apprezzamento e ammirazione con la tacita promessa di entrarci la prossima volta che avrei messo piede nella capitale. Tacheles è sempre stato sinonimo di libertà, volontà, condivisione: in una parola, Berlino.
La Berlino che ci piace vedere crescere giorno dopo giorno, quella distrutta e rinata dalle sue ceneri, quella che accoglie milioni di persone provenienti da mondi diversi, culture diverse, religioni diverse: la Berlino che tende la mano ai giovani, non con condiscendenza, ma con fratellanza, quella che vorresti ti dicesse "vieni, e trova il tuo spazio: ce la faremo insieme". E cosa c'è di più simbolico di un vecchio grande magazzino destinato alla demolizione, adottato e occupato da un gruppo di giovani artisti che lo eleggono propria casa dell'arte?

Da ventidue anni Tacheles ospita mostre, collettive, performance improvvisate e organizzate, installazioni spontanee e elaborate in anni di esperienza artistica. Ventidue anni. E' facile accostare, nel cuore, l'aggregazione spontanea degli artisti più disparati al crollo del muro di Berlino, avvenuto pochi masi prima: l'assioma arte/libertà è potente e vero.

E ora, il proprietario dell'immobile ha deciso che la masnada di artisti più o meno celebri che infestano i suoi corridoi devono sparire, massa improduttiva di lavativi che non producono denaro.
Come dargli torto? Se è casa sua, deciderà bene lui che farne. Ma l'amaro è difficile da mandare giù, soprattutto sapendo che il proprietario (una banca) ci farà un hotel di lusso.

Una sconfitta? Mai.
Tacheles risorgerà, da un'altra parte, con altri sostenitori, nuove opere d'arte e rinnovato vigore: ma un angolo del cuore pulsante di Berlino è stato calpestato, e forse per sempre. Per soldi.


sabato 17 marzo 2012

Felicità su due ruote

I raggi del sole iniziano a picchiare insistenti sui vetri delle mie finestre fin dalle prime ore del mattino, insinuandosi dispettosi tra le tende abbassate per venire a svegliarmi presto, troppo presto nel mio unico giorno libero! Ma se da un lato la tentazione di ficcare la testa sotto il cuscino e continuare a dormire è allettante, dall'altro la consapevolezza che un'altra meravigliosa giornata di sole e primavera sta per cominciare anche nella fredda Germania mi regala un sorriso e la voglia di alzarmi e far entrare l'aria frizzante e luminosa in casa.

E cosa c'è di meglio di un giro in bicicletta per assaporare questo tanto atteso inizio di primavera dopo la lunga clausura invernale? Attendo un paio d'ore, il tempo di assicurarmi che il sole abbia fatto il suo dovere scaldando per bene tutto quello che c'è da scaldare e inforco la belva.

Faccio fatica a trattenere una risata nel constatare che, nonostante i miei tentativi di adattamento alla vita e alle abitudini tedesche, non riuscirò mai a camuffare la mia origine italica (non che lo voglia!): d'accordo, le previsioni danno una massima di 20°, però conosco questo venticello infido che ghiaccia il naso e le dita, so bene che all'ombra i gradi sono dieci di meno, così esco vestita "a strati" con t-shirt, felpa e piumino. Aperto, ma pur sempre piumino. Il mio vicino mi saluta dal cortile in canottiera-bermuda-calzini-sandali con un "Guten Morgen" perplesso, e ricambio con un sorriso altrettanto sconcertato: come diavolo si vestirà ad agosto??

La bicicletta mi dà un senso di libertà indescrivibile. Detesto di cuore le salite, perchè nonostante io sia una di quelle persone "sportive dentro", non sono esattamente un drago quando si tratta di sforzo fisico. In pianura sì, pedalerei per ore: ma una salitina appena appena è sufficiente a stroncarmi. 
Con soddisfazione però riesco a pedalare strenuamente oltrepassando il mio precedente record, abbandonando il tentativo quasi giunta in vetta. Ma ne vale la pena: avevo notato su una cartina che girando dietro lo stradone dell'ospedale si può prendere una strada (una specie di circonvallazione, a vederla su google) che arriva direttamente al parco che avevo intenzione di raggiungere. Che gioia scoprire che si tratta di una fantastica strada con tanto di marciapiede/ciclabile completamente in discesa pieno di curvoni in mezzo al verde! 

Già solo il divertimento mi ripaga della salita precedente. 

Arrivo al parco: voglio andare a vedere i cervi che vivono in un grande recinto poco più avanti, ma si tengono come sempre a distanza. In compenso le capre che arrivano belando sonoramente regalano la soddisfazione di una carezza sul muso.
Obiettivo raggiunto...che fare ora?

Noto una ragazza sbucare in bicicletta da una stradina che immagino porti a un quartiere residenziale. La imbocco, giusto per pedalare ancora un po' prima di pranzo, e meraviglia! La stradina prosegue ai margini del parco per poi sfociare in un meraviglioso nulla circondato da verde e silenzio, un binario ferroviario che si snoda deserto a perdita d'occhio in aperta campagna.
Il sentiero si trasforma presto in una vera stradina ciclabile che percorro piena di gioia e curiosità: il sole scalda davvero, il profumo della natura nell'aria è irresistibile e non ho orari. Quando mi fermo per scattare una foto, mi concedo qualche minuto di stupore e felicità: il silenzio. 
Il silenzio, gente.
Da quanto tempo non ci siamo più abituati? Quando mai possiamo dire, davvero, di essere circondati da un silenzio assoluto - eppure accogliente?
Mentre pedalavo, il sibilo del vento nelle orecchie e i gemiti sferraglianti del ferrovecchio che mi ostino a chiamare bici mi avevano impedito di notarlo pienamente: ora solo il richiamo allegro di una cincia spezza l'immensa quiete che mi circonda. 
E' così bello che vorrei rimanere tutto il pomeriggio!


Non ho scoperto dove arriva la pista ciclabile: giunta a un bivio mi sono ripromessa di tornarci la prossima giornata di sole attrezzandomi con un panino e acqua. 
Ciliegina sulla torta, sulla strada del ritorno un movimento sospetto alla mia destra mi fa pensare a un gatto spaventato dal mio passare, e con quale sorpresa vedo un bellissimo scoiattolo correre rapidissimo accanto a me per diversi metri prima di lanciarsi su un albero a sgranocchiare la sua nocciola!


Tutti dovremmo concederci momenti come questo: una boccata di felicità a buon mercato per ricordarci di amare il mondo che ci circonda.

mercoledì 18 gennaio 2012

Per chi affonda la Concordia

L'eroe e il vigliacco. 
L'Italia che affonda e quella che si sforza di restare a galla. 
Il dovere e la paura. 
Coscienza e istinto. 
Bulli e vittime.

Chi siamo noi?

In questi giorni il grande tema che appassiona l'Italia ruota attorno a una tragedia spettacolarizzata, il Titanic cent'anni dopo che torna a far parlare di sé, una grande piéce teatrale che abbaglia e sconvolge da quanto è ben realizzata, perfetta in ogni dettaglio. L'eroe e l'antagonista alla ribalta sotto i riflettori di un Paese che, appassionato e appassionante, ama da sempre farsi coinvolgere in risse e dispute a qualunque livello. Al bar, tra politologi da tavolino e calciofili d'esperienza, nei riciclatissimi programmi televisivi - che siano tribune elettorali o reality show -, e soprattutto nelle vicende di cronaca, che ci piace tanto più è nera. 
Chi non si è fatto morbosamente prendere un po' la mano dalle inquietanti storie che hanno puntato impietosi fari su paesi insignificanti come Avetrana o Brembate, cercando dettagli scabrosi e ricostruendo in cuor suo la "vera" vicenda? Inutile fingere: tutti lo facciamo. 
Ci serve: è un macabro rituale che ci mette la coscienza a posto e, in un periodo in cui le parole d'ordine sono "crisi", "crollo", "tasse", ci riequilibra e ci trova un posto in un mondo che tutto sommato riconosciamo ancora come il nostro, perché si fonda nonostante tutto sugli immutabili concetti di Bene e Male.

E cosa c'è di meglio di una vicenda in cui Bene e Male sono esplicitamente impersonati da due protagonisti perfettamente inquadrati nel loro ruolo? Il comandante vigliacco, quello che mette a repentaglio la vita di migliaia di persone per una sboronata, quello con gli occhi azzurri ma lo sguardo sfuggente, i capelli disordinati e quella voce al telefono così stridula e platealmente falsa. Il tipico italiano codardo. Non so, fosse una fiction all'italiana ci vedrei bene un Christian De Sica.
E dall'altra parte il buono, l'uomo integerrimo di saldi principi morali, con la voce salda e maschia, quello che passa dal gergo marinaresco a un ordine appassionato che di ufficiale ha ben poco, un bel viso pulito e ordinato che nasconde un animo da lupo di mare. Eroico, naturalmente. Ci metterei Accorsi, con quell'aria un po' da sex symbol involontario.  

E' tutto un cinema no?
Perché la tribuna del giorno è una pioggia di urla e pollici versi nei confronti del cattivo, che deve morire e fare possibilmente una fine atroce sbranato nella fossa dei leoni, in pochi piangerebbero. Su Facebook la crudeltà non ha limite. Lo chiamano bastardo, uomo di merda, mostro. 
Gli augurano di impiccarsi. 
Il signor De Falco invece è osannato come un eroe, anche se ora molti tendono a ridimensionare la faccenda: insomma, lui ha fatto semplicemente il suo dovere. 
Come è stato sottolineato da più parti, è inquietante quanto bisogno abbiamo di onestà e competenza sul lavoro in un momento in cui furbetti e raccomandati sembrano i padroni del Paese. 


Quello che vedo io, è un Paese disperatamente aggrappato alla figura del buono e corretto signor De Falco come immagine da promuovere nel mondo: noi siamo De Falco, mica Schettino. Quello non lo vogliamo manco morto, quello non ci rappresenta.

Eppure per chi ci guarda dall'estero noi siamo un po' Schettino. Ci piaccia o no. Siamo gente di buon cuore, ma spesso ciarlatani chiassosi e pigri. Piccoli o grandi imbroglioni, da quelli che non pagano il biglietto del tram agli evasori fiscali. 

E noi ci ribelliamo, aggrappati a una figura che per tragica fatalità è finita sotto i riflettori, portandola ad esempio e dicendo: "Vedete? Vedete? Questo è un vero italiano, credeteci". Aiutateci
Siamo un paese che affonda, e abbiamo un disperato bisogno che ci sia un De Falco da qualche parte che dica allo Schettino di turno "Vada a bordo, cazzo!", che dimostri che siamo un Paese che può ancora avere un ruolo nella storia, nella vita del mondo, che non verrà lasciato annegare nel suo circolo vizioso dell'incompetenza e dell'esibizionismo che, volenti o nolenti, ci rappresentano.

Ma non accanitevi più, vi prego. E' disumano.