domenica 20 aprile 2014

Al mercato

Tirana - Il mercato
Non ne potevo più di stare tappata al chiuso.
E' domenica, è festa: devo assolutamente uscire e approfitto della pallida occhiata di sole per calarmi nei miei panni preferiti, ovvero quelli dell'esploratrice spaesata.
Cosa c'è di più bello che camminare a caso per ore immergendosi in una città nuova, senza meta, senza guida, senza mappa e - non vale barare - senza wi-fi?
Persino questa città riacquista del vago fascino, se guardata con distacco.
Nonostante la fanghiglia, il traffico incessante (è la domenica di Pasqua ed è mezzogiorno, togliete i vostri culi dalle macchine porca miseria!!), il rumore e le abitudini discutibili di una città che ancora dopo due settimane fatico a comprendere, la gioia di girovagare mi pervade ed è immensa.
La cosa bella è che qui nel centro di Tirana c'è sempre mercato. Legale, illegale, sotto banco, per passaparola...E' lo stesso. La piazza del mercato brulica di colori e odori, il profumo della frutta fresca si mescola con l'odore acre del tabacco e altre puzze non meglio identificate, le voci alte dei venditori si intrecciano in una melodia incomprensibile ed irresistibile, contrappuntate dal cinguettio delle gabbie degli uccelli in vendita e dall'uggiolare dei cuccioli rinchiusi, nella triste attesa di essere comprati ed amati.
Il mercato è un posto affascinante.
Vorrei curiosare tutto, annusare e toccare tutto, chiedere e fotografare tutto ma non posso: capisco bene che non sia usuale qui vedere una straniera aggirarsi al mercato da sola, e nonostante la gentilezza di molti la sensazione di avere dei riflettori puntati addosso con la scritta "pollo da spennare" non mi abbandona.
Ci sono tanti prodotti ignoti, e sono attratta da un cesto pieno di sassolini neri (riso? semi? frutta secca?) e da vere e proprie montagnole di striscioline bianche (crauti? spaghetti? vermi?), ma non appena il mio sguardo indugia un secondo di troppo in cerca di un indizio, le tre donne sedute sul marciapiede raccolgono i loro fazzoletti pieni di vermicelli bianchi e me li porgono cercando di imbonirmi in albanese.
Cosa vorranno? Convincermi della freschezza, propormi ricette, farmeli assaggiare? Mi limito a sorridere e a fare un cenno con la testa andandomene. Dannazione, adesso voglio sapere cos'è!
Adotto una nuova tattica: cammino veloce tra le bancarelle lanciando occhiate precise da massaia consumata, come se sapessi benissimo cosa sto cercando e dov'è; vedo tante cose sfuggendo allo sguardo catalizzatore dei venditori e mi allontano, proseguendo la mia passeggiata. Ma poi torno, ripetendo il giro all'inverso: adesso so cosa guardare, e cerco di carpire maggiori indizi prima di andarmene. E infine, al terzo giro: ah-AH! Kadaif! Una delle donne del marciapiede ha messo un cartellino scritto col pennarello davanti alla sua montagnola di vermicelli, e io esulto grata di quella scoperta: mi annoto la parola, e una volta tornata in albergo scopro che è quella specie di pasta-paglia che viene ricoperta da sciroppo di zucchero o miele e si usa sui dolci tipici della cucina mediorientale e balcanica. Fico!

Kadaif

Dopo un'ora di camminata però i miei polmoni implorano pietà: la cappa di smog è asfissiante dato che non piove, e comincio ad avere una vaga sensazione rantolante che preferirei rimandare a quando avrò novant'anni.

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