sabato 31 marzo 2012

Vivere all'estero ed essere "buzzurri"

Giovani italiani che sognano un futuro, forse all'estero, forse in Italia. Giovani che magari sin dai primi anni del liceo coltivano un progetto che sperano di realizzare negli anni a venire. Giovani che non vogliono accontentarsi di accettare quello che c'è ma decidono di provare ad affacciarsi oltre le soglie di casa per vedere se c'è uno spazio per il loro sogno.
Dove "casa" a volte significa famiglia. A volte città. A volte Paese.

Da quando mi sono trasferita in Germania (sette mesi oggi), frequento con assiduità forum e blog di persone nella mia stessa condizione di "espatriati" (suona male, non è vero?), giovani e meno giovani, leggendo storie, confrontando problemi, analizzando articoli per capire chi siamo e cosa vogliamo.
Quello che volevo io quando sono partita mi è molto chiaro: lavorare sfruttando le mie capacità e la mia passione nell'ambito in cui mi sono cimentata anima e corpo per anni. Nel Belpaese ho lavorato con passione seguendo mille strade, mille progetti, sfornando proposte e accogliendo qualunque possibilità mi venisse offerta: ma dopo anni ancora non riuscivo a intravedere il momento in cui mi sarei finalmente affrancata dalla dipendenza economica familiare, non potendomi permettere un affitto né riuscendo a garantirmi un posto, se non fisso, accettabilmente stabile.

Avrei potuto accantonare il mio sogno.
In molti lo fanno.
Per necessità o bisogno di concretezza.
Quante volte mi sono sentita dire che con la musica non si mangia, che l'arte non è un lavoro e che "alla tua età avevo già due figli e lavoravo da dieci anni"? Nonostante le persone a me vicine abbiano sempre creduto in me senza farmi mai pesare le magre opportunità lavorative che riuscivo a racimolare, negli ultimi tempi in Italia sono arrivata a sentirmi un'intrusa in casa mia, una parassita senza lavoro che perdeva tempo a studiare libri (come se fosse una colpa) e perdermi dietro alla musica: complici quei geni di incompetenza che, nonostante cambino i governi, continuano ad affannarsi a blaterare cazzate solo perchè occupano una poltrona di potere. Ed ecco le schiere di bamboccioni, e più recentemente, di sfigati senza distinzione secondo questi signori che dovrebbero solo avere l'accortezza di tenere il becco chiuso. Se n'è dibattuto in abbondanza: ma accanto ai fannulloni che non hanno un obiettivo né la voglia di cercarselo preferendo farsi mantenere dal papà, quanti giovani ci sono che studiano e lavorano, e darebbero qualunque cosa pur di spiccare il volo ma non ce la fanno? E chi ha finito di studiare, ma il lavoro non lo trova? Perchè un giovane con sogni e progetti non può provare a seguire la sua strada, anche se questa dovesse risultare più lunga di un coetaneo che accetti qualunque lavoretto senza distinzione? Perchè chi vuole provare a intraprendere una carriera "alternativa" deve essere bollato come un figlio di papà che non ha nulla di meglio da fare?

Ho la fortuna di avere due genitori meravigliosi che fin da quando ero bambina mi hanno sempre spronata ad inseguire e realizzare i miei sogni, e che mi hanno sostenuta e appoggiata anche quando molti altri genitori al loro posto avrebbero smesso di farlo. Per amore, suppongo, e perché anche nella loro vita hanno sempre combattuto per un ideale. E hanno accettato che, con fatica, io combattessi per il mio.
Questo fa di me una bambocciona o una sfigata perchè me ne sono andata di casa solo a ventinove anni? Per la mentalità media della società italiana il mio non è nemmeno un lavoro, ma un passatempo per il quale non ho il diritto di essere retribuita. E se lo sono, devo ritenermi una privilegiata. E chi se ne frega dei quasi vent'anni passati a studiare per realizzare il mio sogno parallelamente agli studi classici e all'università (che ho abbandonato), chi se ne frega se ho fatto dei sacrifici e se qualcuno li ha fatti per me.
Questa gente mi risponderà, come ha sempre fatto, che i veri sacrifici sono alzarsi all'alba e andare a zappare la terra o spaccarsi la schiena in miniera.
Ed è quindi anche per questa mentalità retrograda e ostile che ho colto la palla al balzo quando mi si è aperta la possibilità di andare a lavorare in Germania: dopo alcuni mesi di "colloqui" (noi le chiamiamo "audizioni", ma vorrei rendere l'idea) fatti a mie spese viaggiando avanti e indietro cercando di non scoraggiarmi dopo ogni rifiuto, sono stata assunta.
Non navigo nell'oro, ma mi pago un affitto e mi mantengo più che dignitosamente.
Non rimarrò qui tutta la vita, ho in programma di trovare un posto più prestigioso perché sono consapevole delle mie possibilità: ma intanto mi faccio le ossa, approfondisco la lingua, scopro giorno per giorno un Paese dalle abitudini differenti dalle nostre, lavoro sodo e mi preparo per il futuro.

Perché scrivo tutto ciò? Semplice: sono stanca marcia di leggere i commenti qualunquisti e disfattisti che piovono come locuste ogniqualvolta un giornale, un blog o un forum pubblichino articoli in cui si parla di giovani "vincenti": per lo più, giovani che un bel giorno hanno chiuso il trolley e sono partiti in cerca del loro spazio. L'ultimo episodio risale a un paio di giorni fa, quando un blog del Corriere ha pubblicato una piccola rassegna di "quelli che partono", raccontando brevemente storie e avventure di una decina di quasi-trentenni che hanno trovato lavoro e appagamento oltreconfine. Un'incredibile acrimonia accompagna la quasi totalità dei commenti, anonimi che si limitano a sputare con rabbia la loro frustrazione contro chi ci sta provando, a cambiare la sua vita. Credete che sia stato facile? Credete che sia stato comodo? Lasciare amici, famiglia, talvolta l'amore. Una lingua familiare e rassicurante. Un Paese caldo e accogliente, nonostante tutti i suoi problemi. Eppure per qualcuno siamo solo "buzzurri senza arte né parte che appena arrivati a Berlino vengono rinchiusi nello zoo" (testuale commento), accusati di essere figli di papà che fanno lavori chic e se ne vanno perchè non vogliono sporcarsi le mani in Italia con lavori "veri".
A me questi commenti fanno male, mi provocano una rabbia infinita, ma poi faccio un bel respiro e penso che in fondo è solo uno di quegli idioti che nel mio Paese hanno sempre e solo cercato di farmi vergognare del mio lavoro, dei miei studi e dei miei sacrifici, contrapponendovi un lavoro di sudore e fatica, altro che strimpellare i tasti.
- Cosa fai di lavoro? - La musicista. - Ah, wow...ma ti pagano?

Vorrei chiudere un occhio, ma non ci riesco: perché finché esisterà questa ignoranza io so che non potrò mai lavorare come una persona normale nel mio Paese; perché trovo così stupido, gretto e meschino il fatto che si possa anche solo pensare una contrapposizione tra "chi parte" e "chi resta". Siamo tutti italiani e a modo nostro amiamo la nostra terra. Ma se è stato un altro Paese ad accorgersi delle mie potenzialità e a decidere di aver bisogno di me, peggio per l'Italia: io sono rimasta lì per trent'anni dimostrando in tutti i modi quello che potevo fare. In trenta minuti di "colloquio" in Germania ho firmato un contratto. 






venerdì 23 marzo 2012

Auf Wiedersehen, Tacheles!

E così, il Tacheles chiude definitivamente i battenti: un momento amaro per coloro che hanno sempre considerato questo luogo come un crogiolo un po' anarchico, un po' intellettuale, un po' genialoide ma assolutamente parte integrante di Berlino.

Nella mia breve visita alla città ci sono solo passata davanti, scoccandogli un'occhiata di apprezzamento e ammirazione con la tacita promessa di entrarci la prossima volta che avrei messo piede nella capitale. Tacheles è sempre stato sinonimo di libertà, volontà, condivisione: in una parola, Berlino.
La Berlino che ci piace vedere crescere giorno dopo giorno, quella distrutta e rinata dalle sue ceneri, quella che accoglie milioni di persone provenienti da mondi diversi, culture diverse, religioni diverse: la Berlino che tende la mano ai giovani, non con condiscendenza, ma con fratellanza, quella che vorresti ti dicesse "vieni, e trova il tuo spazio: ce la faremo insieme". E cosa c'è di più simbolico di un vecchio grande magazzino destinato alla demolizione, adottato e occupato da un gruppo di giovani artisti che lo eleggono propria casa dell'arte?

Da ventidue anni Tacheles ospita mostre, collettive, performance improvvisate e organizzate, installazioni spontanee e elaborate in anni di esperienza artistica. Ventidue anni. E' facile accostare, nel cuore, l'aggregazione spontanea degli artisti più disparati al crollo del muro di Berlino, avvenuto pochi masi prima: l'assioma arte/libertà è potente e vero.

E ora, il proprietario dell'immobile ha deciso che la masnada di artisti più o meno celebri che infestano i suoi corridoi devono sparire, massa improduttiva di lavativi che non producono denaro.
Come dargli torto? Se è casa sua, deciderà bene lui che farne. Ma l'amaro è difficile da mandare giù, soprattutto sapendo che il proprietario (una banca) ci farà un hotel di lusso.

Una sconfitta? Mai.
Tacheles risorgerà, da un'altra parte, con altri sostenitori, nuove opere d'arte e rinnovato vigore: ma un angolo del cuore pulsante di Berlino è stato calpestato, e forse per sempre. Per soldi.


sabato 17 marzo 2012

Felicità su due ruote

I raggi del sole iniziano a picchiare insistenti sui vetri delle mie finestre fin dalle prime ore del mattino, insinuandosi dispettosi tra le tende abbassate per venire a svegliarmi presto, troppo presto nel mio unico giorno libero! Ma se da un lato la tentazione di ficcare la testa sotto il cuscino e continuare a dormire è allettante, dall'altro la consapevolezza che un'altra meravigliosa giornata di sole e primavera sta per cominciare anche nella fredda Germania mi regala un sorriso e la voglia di alzarmi e far entrare l'aria frizzante e luminosa in casa.

E cosa c'è di meglio di un giro in bicicletta per assaporare questo tanto atteso inizio di primavera dopo la lunga clausura invernale? Attendo un paio d'ore, il tempo di assicurarmi che il sole abbia fatto il suo dovere scaldando per bene tutto quello che c'è da scaldare e inforco la belva.

Faccio fatica a trattenere una risata nel constatare che, nonostante i miei tentativi di adattamento alla vita e alle abitudini tedesche, non riuscirò mai a camuffare la mia origine italica (non che lo voglia!): d'accordo, le previsioni danno una massima di 20°, però conosco questo venticello infido che ghiaccia il naso e le dita, so bene che all'ombra i gradi sono dieci di meno, così esco vestita "a strati" con t-shirt, felpa e piumino. Aperto, ma pur sempre piumino. Il mio vicino mi saluta dal cortile in canottiera-bermuda-calzini-sandali con un "Guten Morgen" perplesso, e ricambio con un sorriso altrettanto sconcertato: come diavolo si vestirà ad agosto??

La bicicletta mi dà un senso di libertà indescrivibile. Detesto di cuore le salite, perchè nonostante io sia una di quelle persone "sportive dentro", non sono esattamente un drago quando si tratta di sforzo fisico. In pianura sì, pedalerei per ore: ma una salitina appena appena è sufficiente a stroncarmi. 
Con soddisfazione però riesco a pedalare strenuamente oltrepassando il mio precedente record, abbandonando il tentativo quasi giunta in vetta. Ma ne vale la pena: avevo notato su una cartina che girando dietro lo stradone dell'ospedale si può prendere una strada (una specie di circonvallazione, a vederla su google) che arriva direttamente al parco che avevo intenzione di raggiungere. Che gioia scoprire che si tratta di una fantastica strada con tanto di marciapiede/ciclabile completamente in discesa pieno di curvoni in mezzo al verde! 

Già solo il divertimento mi ripaga della salita precedente. 

Arrivo al parco: voglio andare a vedere i cervi che vivono in un grande recinto poco più avanti, ma si tengono come sempre a distanza. In compenso le capre che arrivano belando sonoramente regalano la soddisfazione di una carezza sul muso.
Obiettivo raggiunto...che fare ora?

Noto una ragazza sbucare in bicicletta da una stradina che immagino porti a un quartiere residenziale. La imbocco, giusto per pedalare ancora un po' prima di pranzo, e meraviglia! La stradina prosegue ai margini del parco per poi sfociare in un meraviglioso nulla circondato da verde e silenzio, un binario ferroviario che si snoda deserto a perdita d'occhio in aperta campagna.
Il sentiero si trasforma presto in una vera stradina ciclabile che percorro piena di gioia e curiosità: il sole scalda davvero, il profumo della natura nell'aria è irresistibile e non ho orari. Quando mi fermo per scattare una foto, mi concedo qualche minuto di stupore e felicità: il silenzio. 
Il silenzio, gente.
Da quanto tempo non ci siamo più abituati? Quando mai possiamo dire, davvero, di essere circondati da un silenzio assoluto - eppure accogliente?
Mentre pedalavo, il sibilo del vento nelle orecchie e i gemiti sferraglianti del ferrovecchio che mi ostino a chiamare bici mi avevano impedito di notarlo pienamente: ora solo il richiamo allegro di una cincia spezza l'immensa quiete che mi circonda. 
E' così bello che vorrei rimanere tutto il pomeriggio!


Non ho scoperto dove arriva la pista ciclabile: giunta a un bivio mi sono ripromessa di tornarci la prossima giornata di sole attrezzandomi con un panino e acqua. 
Ciliegina sulla torta, sulla strada del ritorno un movimento sospetto alla mia destra mi fa pensare a un gatto spaventato dal mio passare, e con quale sorpresa vedo un bellissimo scoiattolo correre rapidissimo accanto a me per diversi metri prima di lanciarsi su un albero a sgranocchiare la sua nocciola!


Tutti dovremmo concederci momenti come questo: una boccata di felicità a buon mercato per ricordarci di amare il mondo che ci circonda.